giovedì 1 maggio 2008

PAOLO BUCHIGNANI : RIBELLI D'ITALIA


Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

ha dichiarato che il mito della Resistenza tradita è falso e ha avvalorato posizioni antidemocratiche.

Lo storico Paolo Buchignani

spiega come il mito della rivoluzione tradita sia il filo conduttore della storia nazionale, dal Risorgimento al 1968.


Paolo Buchignani, scrittore e storico del '900 italiano.
"Libero" (pagina della cultura), domenica 27 aprile 2008, pp.28-29.




RIBELLI D'ITALIA
La rivoluzione è sempre "tradita". Così se ne può fare un'altra.
Napolitano: "Falso il mito della Resistenza incompiuta" .La leggenda della rivolta mancata è il filo conduttore della nostra storia dal Risorgimento agli anni di piombo.


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Il Risorgimento? Il Fascismo? La Resistenza? Il ’68? Rivoluzioni “incompiute” o “tradite”. Questa la lettura che di avvenimenti cruciali della nostra storia è stata a lungo proposta o, per meglio dire, imposta, da una cultura politica pervicacemente radicata, largamente diffusa e non ancora estinta.
Questa cultura, definita da alcuni studiosi, seppur con diverse sfumature di significato e di giudizio, “ideologia italiana” (Norberto Bobbio, Ernesto Galli della Loggia) o “radicalismo nazionale” (Emilio Gentile), si fonda sul mito della rivoluzione: un mito potente e trasversale, una patologia del ‘900, genesi e alimento dei grandi totalitarismi. Un mito che ha interessato, nell’Italia del XX secolo, la maggior parte delle ideologie e delle forze politiche: in primo luogo il comunismo e il fascismo; ma anche il sindacalismo rivoluzionario, l’anarchismo, l’azionismo, e perfino un certo cattolicesimo murriano e dossettiano, fino ad arrivare ai movimenti del ’68 e oltre, incluse le diverse sigle del terrorismo rosso e nero.
La rivoluzione auspicata e annunciata ha un carattere nazionale, sociale e antropologico, con l’accentuazione di un elemento o di un altro a seconda dei soggetti che ne sono portatori: spesso assume i connotati di una palingenesi, di una millenaristica utopia (il paradiso in terra) sull’altare della quale si ritiene lecito sacrificare i diritti e i valori fondanti della civiltà occidentale, a partire dalle libertà democratiche.
Rossi o neri, di destra o di sinistra (categorie talvolta assai evanescenti), i rivoluzionari partono da una analisi apocalittica della realtà esistente ed attribuiscono a se stessi, ed alla rivoluzione di cui si fanno banditori, una funzione salvifica, la certezza della rinascita rispetto ad una condizione giudicata abietta. Essi puntano sulla mobilitazione convergente e violenta (la “violenza catartica” levatrice della storia, di marxiana e soreliana memoria) di un’avanguardia intellettuale, cui appartengono, mossa, a loro avviso, dagli ideali ed estranea agli interessi, e del popolo, inteso, quest’ultimo, in un’ottica riconducibile a Rousseau, come una unità indifferenziata esprimente una sola indivisibile volontà. Una mobilitazione che si esprime al di fuori dei canali della rappresentanza istituzionale, delegittimata e disprezzata come “formale” e ingannevole.
Ben si comprende come ad alimentare una posizione di questo genere, antipolitica e totalitaria, sia una cultura moralistica e astratta, intransigente e mistico-religiosa (anche quando si definisce materialista), antiliberale e antiparlamentare, antiborghese e antiriformista, populistica ed élitistica nello stesso tempo. Una cultura dotata di un altissimo tasso di ambiguità (a partire dai concetti di popolo e di avanguardia, del tutto estranei al liberalismo), che le consente di adattarsi alle diverse (talora opposte) ideologie, di fruire di una varietà di esiti pratici.
Su questa base si spiega la genesi e l’ampia fortuna del mito delle “rivoluzioni tradite”. “Tradito” il Risorgimento, innanzitutto, secondo Giuseppe Mazzini, in quanto mancata rivoluzione nazionale e sociale. Lo Stato che nasce dopo l’Unità sarebbe, secondo il mistico e romantico agitatore ligure, una “menzogna”, un “organismo inerte”, cui mancano “l’alito fecondatore di Dio, l’anima della Nazione”. Non la “terza Roma” sorta dall’iniziativa rivoluzionaria del popolo, all’altezza della sua tradizione e della sua missione civilizzatrice, ma il frutto del moderatismo della monarchia sabauda e delle astuzie diplomatiche del conte di Cavour.
Una posizione, questa, diffusa non soltanto tra gli eredi di Mazzini e di Garibaldi, ma presente in alcuni dei più importanti intellettuali e in alcune formazioni politiche a cavallo tra ‘800 e ‘900: dal Carducci repubblicano al D’Annunzio, da Giovanni Verga a Luigi Pirandello, da Alfredo Oriani alle avanguardie antigiolittiane di inizio secolo: vociani, lacerbiani, nazionalisti, futuristi, sindacalisti rivoluzionari; esponenti di una cultura che sfocia nell’interventismo, che comprende il giovane Mussolini, (tanto quello socialista estremo, direttore di “Utopia” e de “L’Avanti!”, quanto il leader interventista e fondatore dei “Fasci”), ma anche il comunista Antonio Gramsci e il liberale filo-bolscevico Piero Gobetti.
Una posizione che costituisce il nucleo ideologico fondamentale di una cultura (l’”ideologia italiana”, appunto) e di una azione politica fortemente polemiche e delegittimanti sia nei confronti della classe dirigente post-unitaria, sia, sempre di più, dello Stato liberale e delle sue istituzioni, a partire dal parlamento: uno Stato dipinto come vecchio, corrotto, gretto, rinunciatario, privo di ideali (“borghese”, insomma, con un termine che vuol essere il compendio negativo di tutto questo), di cui si persegue l’abbattimento e la sostituzione con uno Stato nuovo (dai connotati assai vaghi e mutevoli in relazione all’eterogeneità dei soggetti che ne auspicano l’avvento), ma, comunque, antiliberale, antidemocratico, potenzialmente autoritario o totalitario, uno Stato che, nel dopoguerra, si incarnerà in quello fascista.
Sulle orme di Mazzini, ma soprattutto di Oriani (al quale attingono e al quale guardano con simpatia Gramsci, Gobetti e Mussolini) i comunisti, gli azionisti gobettiani e i fascisti (ma anche i sindacalisti rivoluzionari e tutto il sovversivismo novecentesco) recepiscono il mito del Risorgimento come “rivoluzione tradita e incompiuta” ed attribuiscono a se stessi il compito di realizzarla, naturalmente con i contenuti e gli obiettivi che sono propri di ciascuno, ma che non si differenziano molto gli uni dagli altri: tutti promettono di costruire un’”Italia grande” (contro l’”Italietta” di Giolitti) e “popolare” e di creare un nuovo tipo di italiano.
La storia mette alla prova il fascismo, che conquista il potere e diventa regime, col sostegno della grande borghesia, della monarchia e la benedizione della Chiesa cattolica. Un’altra rivoluzione “tradita”, dunque, agli occhi dei sovversivi in camicia nera (ex combattenti, squadristi, sindacalisti, giovani della generazione successiva facenti capo specialmente a Giuseppe Bottai) che di quella rivoluzione si proclamano gli interpreti più autentici, i custodi più fedeli, i difensori più irriducibili. Di conseguenza, essi ingaggiano una dura, ventennale battaglia contro i presunti “traditori”, che identificano nei gerarchi imborghesiti e corrotti (eredi del conservatorismo liberale), mentre continuano a credere nel Duce, cui attribuiscono le loro stesse aspirazioni rivoluzionarie, la loro stessa intenzione di combattere le forze reazionarie e di fondare una “nuova civiltà”, una sorta di “terza via” alternativa tanto al capitalismo quanto al comunismo: una nuova civiltà fascista che dovrebbe costituire anche il compimento del processo risorgimentale interrotto.
Crollato il regime mussoliniano, molti rivoluzionari neri, proprio sulla base di quel mito della rivoluzione che aveva alimentato la loro fede e le loro battaglie del Ventennio, approdano alla sponda comunista, o, comunque, aderiscono alla sinistra antifascista, e partecipano alla Resistenza, nella quale individuano una nuova occasione rivoluzionaria per completare il Risorgimento e realizzare quel socialismo che avevano cercato all’ombra del Fascio. Ma ancora una volta, quella, odiata borghesia che sotto mutate spoglie continua a dominare, ora nei panni della Dc degasperiana, erede del moderatismo liberale e di quello fascista, insabbia e tradisce la “rivoluzione”.
Il “vento del Nord” si dilegua e l’utopia rivoluzionaria s’allontana: per i comunisti essa s‘identifica, per molto tempo, nell’Unione Sovietica. Finchè arriva la stagione del ’68 e dei primi ’70: il mito della rivoluzione torna prepotente e contribuisce, certo, ad alimentare il terrorismo degli anni di piombo. Estremisti e terroristi (che attaccano lo Stato liberale come “borghese” e “formale”, una finta democrazia, con argomentazioni identiche a quelle dei sindacalisti soreliani del primo ‘900, del Mussolini socialista e fascista e dei “fascisti rivoluzionari”); quegli estremisti questa volta additano il Pci come il “traditore” della rivoluzione. Il Pci di Togliatti durante la Resistenza, quello di Berlinguer trent’anni dopo avrebbero tradito quella grande speranza, avrebbero impedito, a causa di una colpevole involuzione moderata e borghese”, di realizzare la società senza classi, la nuova civiltà dell’armonia universale, il paradiso in terra.
Secondo questa visione religiosa ed estetica, astratta e totalitaria, germogliata nella testa di intellettuali di formazione prevalentemente letteraria, privi di esperienza di amministrazione e di governo, ignari di questioni istituzionali, dispregiatori della politica come compromesso e necessaria mediazione tra gli interessi, la vicenda dell’Italia postunitaria sarebbe un susseguirsi di tradimenti e di occasioni mancate. In realtà, la storia ci insegna che tutte le rivoluzioni sono, alla fine, “tradite”, nel senso che debbono fare i conti con la realtà storica in cui si collocano e rinunciare, almeno in parte, alla loro radicalità. E ciò non è necessariamente un male: anzi, talvolta, ci salva da pericolose involuzioni dittatoriali.
Per quanto riguarda il fascismo italiano, per esempio, la sua vocazione totalitaria, di cui i fascisti rivoluzionari si facevano interpreti in modo più estremo (convinti che il totalitarismo fosse necessario per garantire una più incisiva rivoluzione contro la borghesia liberale), si è realizzata soltanto parzialmente, risparmiandoci gli orrori della Germania hitleriana e della Russia staliniana, proprio grazie al “tradimento” di quei settori del regime, più sensibili alla pressione dei “poteri forti” del tempo, di quelle forze conservatrici (la Confindustria, la Monarchia la Chiesa) che non si lasciarono fascistizzare.
La politica non può essere estranea ai valori, non può e non deve rinunciare ad una progettualità di ampio respiro che la proietta nel futuro, ma, nello stesso tempo, deve avere il senso della sua relatività, dei suoi limiti: mai farsi religione, mai attribuirsi un valore assoluto, mai aspirare alla creazione della “società perfetta”: i totalitarismi del ‘900 con le loro luttuose tragedie sono lì ad ammonirci. “Se cercheremo di trasformare il Purgatorio in cui viviamo in un Paradiso – scrisse Gaetano Salvemini - finiremo tutti all’Inferno”.

Paolo Buchignani

(autore di La rivoluzione in camicia nera, Oscar Mondadori, 2007
Fascisti rossi (Oscar Mondadori, 2007)


















1 commento:

zevi ha detto...

belle parole, ma la tolleranza esiste soltanto per chi può permettersela. i fascisti rivoluzionari non moriranno mai, perché non hanno paura dell'inferno!