domenica 16 marzo 2008

LIBERTA' PER IL TIBET !


Il Dalai Lama, la guida spirituale del Tibet, che vive in esilio in India, ha chiesto un'inchiesta per verificare l'esistenza di un genocidio culturale in Tibet e si è detto impegnato per ottenere l'autonomia della sua regione dentro la Cina. Ma ha accusato Pechino di contare solo sulla forza per raggiungere la pace.
La suprema guida spirituale del Tibet ha detto anche che la Cina merita di ospitare i Giochi olimpici, ma la comunità internazionale ha la responsabilità morale di ricordare alla Cina e a Pechino di comportarsi bene.

( Reuter del 16.03.'08)


Il Presidente della Cina Hu Jintao che 18 anni fa scatenò l'esercito nella repressione delle rivolte in Tibet così si è espresso sul Dalai Lama: ”..Il Dalai Lama non può essere accettato: è una autorità spirituale indipendente…”

Sul Corriere del 16.03.2008
è stato pubblicato questo interessante articolo di Franco Venturini:


LA STRAGE IN TIBET E L’OLIMPIADE
La vittoria dell’ipocrisia


Sette anni fa, quando il Comitato olimpico assegnò a Pechino i Giochi 2008 senza incontrare l’opposizione dei governi occidentali, il Tibet era già prigioniero del pugno di ferro cinese. Era già in atto la repressione dei costumi, della cultura e della religione dei tibetani. Il Dalai Lama batteva già le strade del mondo chiedendo solidarietà. E la Cina, anche fuori dal Tibet, era già sul banco degli imputati per le sue reiterate violazioni dei diritti umani. Fu, quella del 2001, una scommessa audace. Se tutto fosse andato secondo le intenzioni (e secondo le promesse di Pechino) le Olimpiadi avrebbero aperto ampi varchi nella Grande Muraglia del regime comunista, milioni di stranieri sarebbero giunti a scuotere l’ordine costituito e il suo isolamento informativo, si sarebbe prodotta, insomma, una poderosa spinta verso quella democratizzazione interna che l’economia semicapitalista non era riuscita a innescare. Gli avvenimenti in Tibet, e non soltanto in Tibet, dimostrano oggi quanto temerario sia stato per l’Occidente concedere alla Cina una cambiale in bianco.
A Lhasa la violenza contro gli indifesi ha resuscitato i fantasmi della Tienanmen. Un centinaio di giornalisti e di internauti troppo curiosi langue in carcere a Pechino a in altre città. La preparazione dei Giochi si è tradotta in una nuova forma di lavori forzati per molte migliaia di operai migranti. E’ stato predisposto per le Olimpiadi un codice di condotta che esclude ogni minima manifestazione di dissenso e stabilisce persino qual è il modo migliore di applaudire. Il bilancio della scommessa, anche calcolando i rari aspetti positivi (come la lotta all’inquinamento), è sin qui ampiamente in rosso. E il Tibet che tenta di resistere all’assimilazione forzata lo ha fatto diventare rosso sangue. Eppure non crediamo, come Steven Spielberg e parecchi altri, che sia giunto il momento di decidere il boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino. Accostare le violazioni cinesi dei diritti umani all’invasione sovietica dell’Afghanistan (che portò a qualificate assenze in occasione dei Giochi di Mosca) significa ignorare quel cinico codice internazionale che distingue tra «affari interni» e violazione della sovranità di un altro Stato.
Poco realistico è anche trascurare i colossali interessi economici in ballo, nei rapporti con la Cina e nella specifica occasione olimpica. Ma soprattutto — ed è questo per noi l’unico motivo dirimente — un boicottaggio annunciato cinque mesi prima dei Giochi umilierebbe la Cina, farebbe esplodere il suo nazionalismo e si tradurrebbe in repressioni ancora più dure di quelle in atto. Crediamo piuttosto, anche in queste ore che alimentano il dolore e l’indignazione, che resti valida la strategia del «coinvolgimento» che ispirò l’assegnazione delle Olimpiadi, perché in Cina come altrove soltanto seguendo il doppio binario del dialogo e delle pressioni si può sperare di modificare una realtà inaccettabile. E qui arriviamo al problema vero: esistono, e sono adeguate, le pressioni che vengono esercitate su Pechino? Non ci pare. Da molti anni, negli incontri ad alto livello tra dirigenti cinesi e occidentali, il richiamo al rispetto dei diritti umani è diventano un rito vuoto e sgradito.
L’Europa a parole fa la sua parte, ma poi Solana precisa che andrà volentieri a Pechino. L’America in campagna elettorale si copre le spalle, ma anche Bush sarà ai Giochi e per facilitargli il viaggio la Cina è stata tolta dall’elenco dei cattivi diffuso pochi giorni addietro dal Dipartimento di Stato. Il boicottaggio dovrebbe essere un’arma estrema, da tenere in riserva e da far pesare. Ma quando i biglietti per Pechino vengono già staccati da chi dovrebbe agitare il bastone, non rimane che rassegnarsi: le Olimpiadi saranno una grande festa di sport e una festa ancor più grande di ipocrisia.
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Con questa premessa oggi dobbiamo domandarci cosa sono le Olimpiadi.
A mio avviso rappresentano un grande business dove lo “sport professionistico” viene utilizzato come cassa di risonanza e strumento di propaganda per determinati obiettivi politici ed economici.
Diventa complicato boicottare le Olimpiadi di Pechino.
Diventa complicato, per un paese, decidere di non mandare la propria rappresentanza sulla base del fatto che in Cina non si rispettano i diritti civili, non c’è libertà di pensiero, di religione, di cultura.
Diventa complicato perché significherebbe rimettere in discussione i legami economici intessuti in tutti questi anni dalle imprese, dalle multinazionali, dai governi occidentali.
Anche in Cina l’Occidente ha cominciato a delocalizzare il suo apparato produttivo, i grandi marchi pure e ciò per avvantaggiarsi della mancanza di regole che permettono di far di tutto ( anche a prescindere dall’impatto ambientale ) e di usufruire di manod’opera a basso costo, ( manod’opera che spesso comporta l’impiego di bambini, utililizzati a pieno ritmo nella produzione di beni di consumo poi smerciati in Occidente a prezzi esorbitanti, con evidenti immensi profitti per le imprese).
Sulla base di ciò l’Occidente diventa complice della Cina, come di altri paesi con cui intrattiene questo tipo di “affari”; così facendo sacrifica i diritti delle popolazioni e sostiene un mercato privo di etica.

Contemporaneamente ciò produce una erosione degli stessi diritti che le popolazioni occidentali si sono conquistati, con dure lotte, nel campo del lavoro e del Welfare.

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" Repubblica" 16.03.'08,
F.Rampini:

Riesplode la "polveriera" Tibete la Cina rivive l'incubo dell'89 ".

Sulla pacifica protesta dei monaci tibetani è scattata feroce la repressione cinese: dagli ospedali di Lhasa giungono notizie di numerosi morti e feriti. La capitale è in stato d'assedio e sotto coprifuoco, tutti i principali monasteri buddisti della regione sono circondati da reparti della polizia antisommossa. È la più grande rivolta popolare in Tibet dal 1989, un anno di infausta memoria: allora il plenipotenziario del partito comunista cinese a Lhasa era Hu Jintao, oggi presidente della Repubblica popolare. Hu Jintao l'8 marzo 1989 non esitò a dichiarare la legge marziale e a scatenare l'esercito contro la popolazione indifesa. Si acquistò i galloni dell'uomo forte, i suoi metodi servirono da prova generale per il massacro di Piazza Tienanmen tre mesi dopo. Sono passati quasi vent'anni ma il Tibet non ha mai smesso di essere una polveriera dove si accumulano le tensioni create dalla politica di "assimilazione forzata". La fiammata di questi giorni può sembrare improvvisa e inaspettata, in realtà da mesi si segnalavano episodi di protesta nei monasteri, arresti, deportazioni e torture dei religiosi fedeli al Dalai Lama. C'è una logica stringente dietro questa escalation. Una maggioranza dei tibetani continua a considerare illegittima l'invasione dell'armata maoista che nel 1950 ha annesso il loro territorio. Sentono che il tempo gioca contro di loro, per l'invasione continua di immigrati "han" (l'etnia maggioritaria cinese) che sconvolge gli equilibri della popolazione locale e ne snatura l'identità culturale. …..
Ora o mai più: è il sentimento che ha spinto molti tibetani a scendere in piazza. C'è la speranza che nell'anno delle Olimpiadi, con gli occhi del mondo puntati su Pechino, Hu Jintao avrà qualche esitazione prima di ordinare una nuova carneficina. Per gli occidentali la politica cinese in Tibet appare non solo ignobile ma anche assurda. Con realismo e moderazione, il Dalai Lama ha smesso da decenni di rivendicare l'indipendenza e chiede solo una ragionevole autonomia. Basterebbe applicare al Tibet il sistema in vigore a Hong Kong: porre dei limiti all'immigrazione dal resto della Cina, consentire forme di autogoverno per preservare la fisionomia culturale e proteggere l'ambiente naturale, pur lasciando a Pechino le competenze in materia di politica estera e difesa. Ma anche un modesto federalismo appare al regime cinese come una concessione intollerabile, destabilizzante. Pechino continua a bollare il Dalai Lama come un "secessionista" con cui è impossibile dialogare. La paura che provano i tibetani è, specularmente, la certezza di Hu Jintao: il fattore tempo gioca in favore della Cina. Con 3,8 milioni di km quadrati di superficie, quanto l'Europa occidentale, il Tibet occupa un terzo della Repubblica popolare ma i suoi sei milioni di abitanti sono appena lo 0,5% dei cinesi. Lo squilibrio demografico è immane, è difficile resistere alla "sinizzazione". Il regime può contare anche su un consenso reale fra la maggioranza dei cinesi sulla questione tibetana. Imbevuti di nazionalismo fin dalle scuole elementari, imparano sui manuali di storia solo la versione della propaganda ufficiale: il Tibet è "sempre" appartenuto alla Cina; dietro le velleità di autonomia ci sono forze che vogliono indebolire la nazione, proprio come nell'Ottocento e primo Novecento quando gli imperialismi occidentali e giapponese "amputarono" l'Impero Celeste di pezzi di territorio, da Hong Kong alla Manciuria. Nazionalismo cinese, superiorità demografica, sviluppo economico, sono i rulli compressori che lavorano ad appiattire il Tibet. Mentre la nuova ferrovia rovescia fiumane di "coloni", vasti quartieri di Lhasa già hanno subito uno stravolgimento: ipermercati, shopping mall di elettronica, banche e uffici turistici sono gestiti prevalentemente dai cinesi han, più istruiti e abili negli affari. Lo stesso turismo di massa violenta l'anima dei luoghi: il Potala Palace, ex dimora del Dalai Lama trasformato in museo, è circondato dai torpedoni, invaso da comitive cinesi volgari e arroganti. Eppure dietro la sicumera di Hu Jintao traspare il germe di un dubbio. L'incapacità di aprire un dialogo col Dalai Lama rivela un'insicurezza. Il partito comunista cinese non accetta che dentro la società civile vi siano movimenti organizzati, autorità alternative. I culti religiosi sono stati autorizzati dopo la fine del maoismo ma sono sottoposti a controlli stringenti, indottrinamenti politici, obblighi di fedeltà assoluta al governo. La figura del Dalai Lama è inaccettabile perché è un'autorità spirituale indipendente. Al di fuori del Tibet la Cina ha altri 150 milioni di buddisti praticanti: guai se dovesse insinuarsi nel resto del paese l'idea che la religione può diventare il tessuto connettivo di una società civile autonoma. Tra gli incubi della nomenklatura c'è lo scenario Solidarnosc, proiettato in versione buddista. Nonostante le sue fobie totalitarie, la classe dirigente cinese gestisce tuttavia una superpotenza fortemente integrata nelle relazioni internazionali. La Repubblica popolare è membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, dell'Organizzazione del commercio mondiale; è il principale partner commerciale dell'Unione europea e degli Stati Uniti. Ha l'ambizione di essere un attore responsabile nella governance globale. E' indispensabile che l'Occidente eserciti ogni pressione per far capire a Hu Jintao i rischi che corre in Tibet: vanno ben al di là dei Giochi olimpici. Lo sviluppo con cui i dirigenti di Pechino si garantiscono un consenso reale fra una parte della popolazione, può incappare in serie turbolenze
se la Cina decide di presentarci un volto odioso e minaccioso.

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“Avvenire” 16.3.’08,
Vittorio E. Parsi

Chiarire con Pechino prima che sia troppo tardi
Cresce l’imbarazzo nelle Cancellerie occidentali a mano a mano che si diffondono le notizie dell’ampiezza della rivolta tibetana e della violenza della repressione cinese.
Mentre si esprime la speranza che le violenze cessino immediatamente (senza peraltro specificare che è il popolo tibetano a subire da troppo tempo e fin troppo remissivamente la violenza dell’occupazione coloniale cinese), si spera di non rendere troppo esplicito che, in termini di rispettabilità politica internazionale, le regole che valgono per la Birmania non valgono per la Cina.
Quello della violazione sistematica dei diritti umani, peraltro, è solo il caso più macroscopico del trattamento di favore riservato al colosso asiatico. Il mondo tollera che Pechino non rispetti gli standard minimi ambientali e le norme internazionali contro la contraffazione commerciale, che aggiri quelle sui diritti d’autore e che promulghi leggi che definiscono un 'crimine contro la sicurezza nazionale' la 'divulgazione di notizie sul lavoro infantile' (ancorché esse siano veritiere). Ora, pochi milioni di tibetani rischiano di risvegliare il mondo dal suo torpore, costringendolo a chiedersi se l’enorme benevolenza di cui il governo cinese è oggetto non sia eccessiva e controproducente. Questa benevolenza è il frutto dell’idea clintoniana che fosse necessario 'coinvolgere' ( engage) la Cina, piuttosto che affrontarla ( confront). In tal modo, attraverso la sua integrazione, il suo imbrigliamento nel fitto reticolo di istituzioni e trattati multilaterali che costituivano e costituiscono lo scheletro dell’economia globalizzata, la Cina avrebbe gradualmente perduto i suoi tratti autoritari e minacciosi, e il successo del libero mercato avrebbe portato allo sviluppo di una società civile capace, proprio grazie all’apertura internazionale e alle virtù taumaturgiche di Internet, di pretendere sempre più democrazia. Come le cose sono andate finora lo abbiamo visto: Google ha accettato di censurare i propri contenuti per il mercato cinese, la presa del Partito comunista sul potere politico è salda come mai, e Pechino sta sempre più puntando i piedi e alzando la voce su tutta una serie di questioni. I Giochi olimpici, negli auspici della dirigenza cinese, avrebbero dovuto costituire la vetrina universale in cui mostrare il nucleo del messaggio di Pechino al mondo, la radice del suo soft power, espresso in un concetto chiaro quanto, per molti, allettante: crescita economica e autoritarismo politico possono convivere. Ora, quattro «monaci straccioni, agenti provocatori al soldo del Dalai Lama» rischiano di rovinare tutto. L’eventualità del boicottaggio dei Giochi Olimpici, infatti, non può essere esclusa aprioristicamente, tanto più se la repressione dovesse seguire le solite modalità brutali che conosciamo almeno dai tempi della rivolta di piazza Tienanmen. Quello che sta accadendo in Cina in queste ore segna infatti anche l’ennesimo fallimento della strategia dell’engagement. La ragione di un tale risultato si può trovare nella natura particolare della relazione tra potere politico e potere economico in Cina. Il capitalismo cinese, finora, si è sviluppato sotto il ferreo controllo dell’apparato politico dello Stato autoritario, non si è posto come un possibile contropotere, non ha rappresentato nessuna minaccia per il Partito comunista. La stragrande maggioranza dei nuovi manager e dei nuovi miliardari cinesi sono iscritti al Partito. Del resto, anche nella storia europea, ciò che ha rappresentato un baluardo contro il potere politico, non è stato il capitalismo, ma la proprietà privata. In Cina, per nulla paradossalmente, mentre il primo sembra fiorire la seconda non trova una tutela altrettanto efficace, cosa del resto improbabile in un sistema in cui i giudici sono tutto fuorché indipendenti. In termini internazionali, le cose sono poi ancora peggiori, se possibile. La teoria liberale circa la natura pacificatrice dell’apertura economica internazionale, infatti, funziona solo se si immagina che i soggetti economici si muovano come attori indipendenti rispetto ai governi. Ma non è questo il caso cinese, in cui gli attori economici, per quanto di dimensioni cospicue, restano subordinati al potere politico, con il risultato che la Cina capitalista e comunista di domani rischia di restare il monolito della Cina collettivista e comunista dei tempi di Mao, ma incredibilmente più efficiente e quindi più potente. Quello che sta avvenendo con i cosiddetti 'fondi sovrani', che rastrellano titoli e valuta estera sui mercati finanziari internazionali, ma il cui controllo resta nelle mani del governo cinese la dice lunga. Ecco perché è ora di chiarire le cose con il governo cinese, prima che sia troppo tardi, anche a costo di disertare le Olimpiadi di quest’estate.

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NEL 1952 L’INVASIONE DEL TIBET DA PARTE DELLA CINA DI MAO
Da il “Corriere della Sera”. Blog.

“La Cina ha tanta gente. Il Tibet ha tanto territorio. Dunque…”.
Mao Zedong nel 1952, due anni dopo avere spedito l’Esercito Popolare a Lhasa e avere messo a tacere il piccolo Stato indipendente, chiarì subito le sue idee e i propositi che aveva.
La rivoluzione, la lotta di classe, la liberazione dallo sfruttamento non c’entravano proprio nulla con quella terra e con quella povera gente che obbediva all’autorità spirituale del Dalai Lama. Il dittatore-imperatore pensava ad altro: gli premeva riprendersi una regione sulla base di una considerazione storica che faceva addirittura risalire la “proprietà” del Tibet alle dinastie del tredicesimo secolo – stabilendo così nei fatti una continuità fra il suo comunismo e il feudalesimo dell’antichità – e gli premeva pure appropriarsi di un altopiano e di montagne che rappresentavano una insostituibile e formidabile barriera di difesa dalle invasioni nemiche oltre che una riserva di ricchezza naturale (vi nascono i tre grandi fiumi d’Asia, il Gange, il Mekong e lo Yangtze). Mao Zedong per completare il suo disegno doveva però andare oltre alle strategie classiche della occupazione e della colonizzazione, occorreva cancellare molto in fretta ogni traccia di identità culturale e nazionale che non appartenesse alla storia Han, il ceppo etnico cinese. La frase pronunciata dal Grande Condottiero enunciava un programma politico: “quel tanto territorio”, diventava l’oggetto – nel senso più dispregiativo per lui e più lontano da ogni considerazione umanitaria – della sinizzazione del Tibet.
Mao se ne è andato del 1976 e la Cina, si dice, da allora è stata demaoizzata. Via ogni traccia del trentennio rosso. Via tutto, o quasi. E in quel poco o tanto che resta del maoismo – per il filosofo e sinologo francese Francois Julienne la Cina è stata “demaoizzata in nome di Mao” – c’è l’atteggiamento verso il Tibet, divenuto amministrativamente autonomo nel 1965, delle leadership che si sono succedute nella Repubblica Popolare dopo lo smantellamento dell’economia collettivista: repressione delle opposizioni, insediamenti forzati, ribaltamento dei concetti di maggioranza e di minoranza, la maggioranza tibetana che è diventata minoranza, la minoranza han che è diventata maggioranza. Il governo in esilio stima che i “coloni” siano oggi circa 8 milioni contro i 6,5 milioni di indigeni. Poi ci sono gli insediamenti militari: 500 mila soldati cinesi e alcuni basi dotate di testate nucleari. C’è stata una parentesi, negli anni del riformismo di Hu Yaobang, il segretario comunista che tentò di avviare la democratizzazione della Cina. Egli ammise che “il popolo tibetano non ha tratto alcun beneficio dalla nostra presenza”. Hu Yaobang morì prima della rivolta di Tienanmen ma le sue aperture erano già sul punto di fallire sotto i colpi dell’ala conservatrice.
Il Tibet in questi 48 anni è molto cambiato e la stessa semplicità e frugalità del monachesimo buddista ha subito qualche pesante “contaminazione” consumistica alla quale non è di certo estranea la suggestione esercitata dai milioni di turisti (nuova fonte di redditività della Provincia) che si avventurano in cerca di magie sempre più rare. La Cina ha esportato dalle sue grandi città la concezione della modernità intesa come realizzazione di grandi opere-simbolo del nuovo status di potenza acquisito grazie alla forza dell’economia. La sinizzazione è così passata attraverso il progetto della spettacolare linea ferroviaria che dal primo luglio 2006 unisce (per 1142 chilometri), a un’altitudine media di 4 mila metri, Golmud nella Provincia del Qinghai a Lhasa, passando per il tetto dei 5067 metri del passo Tanggula. E sta proseguendo con l’autostrada che dovrebbe portare niente meno che a 5.200 metri del campo base dell’Everest. Il responsabile dell’area del Qomolangma (Everest in tibetano) ha spiegato con queste parole il senso della cementificazione: “L’autostrada è una manna per lo sviluppo locale… gli scalatori potranno risparmiare energie”. No, non scherzava.La torcia olimpica transiterà il 20 e il 21 giugno. Con il suo messaggio di pace. E non solo: la Cina ribadirà al mondo che il Tibet è suo e che le aspirazioni sepratiste sono superate. Che la sinizzazione ha vinto. Come Mao aveva desiderato.

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Arrestato per sovversione Teng Biao
Teng Biao è il secondo fra i promotori dell'appello
"La Cina reale e i Giochi Olimpici".

Un avvocato che è fra i firmatari dell'appello per i diritti umani in Cina è scomparso dal 6 marzo scorso. La moglie ha detto ieri ai giornalisti di avere udito le grida di suo marito, Teng Biao, provenire dalla strada, di essersi affacciata e di avere trovato vuota la sua auto. Una vicina ha testimoniato che l'uomo è stato prelevato di forza da quattro individui delle squadre militari della sicurezza, caricato e portato via. Un sequestro in piena regola. Esattamente come avveniva nel Cile di Pinochet o nell'Argentina dei generali.
Un fatto gravissimo. Teng Biao è il secondo fra i promotori dell'appello "La Cina reale e i GIochi Olimpici" che finisce nella rete della repressione più violenta solo per avere sollecitato il regime a una svolta sulle libertà civili. Era toccato qualche settimana fa a Hu Jia, arrestato per "sovversione".
Che cosa avevano osato scrivere nel documento diffuso nel settembre 2007?
Ecco un passaggio, considerato dalla polizia cinese un attentato allo Stato: "Pechino sta mantenendo le sue promesse (in materia di diritti umani, ndr)?...Quando verrete alle Olimpiadi vedrete grattacieli, strade spaziose, stadi moderni, gente entusiasta... per piacere ricordate che le Olimpiadi si terranno in un Paese dove non ci sono elezioni libere, non c'è libertà religiosa, nessun tribunale indipendente, nessun sindacato indipendente, dove le dimostrazioni e gli scioperi sono proibiti e dove il governo non ha intenzione alcuna di mantenere gli impegni presi a livello internazionale".
Così si finisce in carcere o sequestrati sotto casa, oggi in Cina. Ed è bene che non si dimentichi. Che, soprattutto, non dimentichino coloro (anche in casa nostra) che ogni volta che si parla di Cina e diritti umani sembrano indignarsi perchè di questo straordinario Paese si coglierebbero soltanto gli aspetti negativi. La Cina, in verità, non è soltanto un bel film a colori.
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dalla "La Repubblica":

“…La polizia ha impedito oggi con la forza ai monaci del monastero di Ramoche di tenere una manifestazione. Attivisti della Free Tibet Campaign riferiscono che alcuni monaci di un altro monastero, quello di Sera, sono da ieri in sciopero della fame per chiedere la liberazione dei loro compagni arrestati nei giorni scorsi, che sarebbero decine. I monasteri di Sera, Drepung e Ganden, al centro delle proteste dei giorni scorsi, sono circondati dalla polizia militare. Circolano voci sulla dichiarazione dello stato d'emergenza, che però non sono state confermate (….). Da giorni Lhasa ospita le proteste dei monaci, le più imponenti degli ultimi vent'anni. Secondo Radio Free Asia decine di persone sono state arrestate anche oggi.

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Manifestazioni di monaci e civili tibetani,
che inneggiavano al Dalai Lama, il leader spirituale del Tibet che vive in esilio dal 1959,
si sono svolte questa settimana anche in aree a maggioranza tibetana nelle province cinesi del Qinghai e del Gansu. Il dissenso preoccupa gravemente Pechino, che ha cercato in tutti i modi di evitare simili proteste in vista dell'appuntamento dei Giochi Olimpici”.

UNIAMOCI ALLA PROTESTA,
CON I MEZZI CHE ABBIAMO,

PER UN TIBET LIBERO !

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