«Drogati di merda». Così Don saluta i suoi ragazzi che gestiscono l'osteria marinara A 'Lanterna in via Milano dove si mangia un pesce da favola. «Ciao Don, in ritardo questa sera...», è la risposta di Fabio, che serve ai tavoli. Don gli batte una mano sulla spalla e poi girandosi verso di me: «Solo io li posso chiamare così».
Nel saluto c'è tutto l'affetto del mondo per i suoi giovani, per i tanti che sono passati dalla comunità di San Benedetto al Porto, che lui ha aiutato a uscire dal tunnel della droga e del malaffare.
«Ciao Don, sai che giorno è oggi?» gli dice Ina, la cuoca che governa la cucina dal primo giorno dell'apertura dell'osteria. Ha intuito dal trambusto che lui è arrivato. Tutti gli ex ragazzi gli sono attorno per salutarlo.
Ina, facendo capolino dal suo regno, gli dice: «Oggi festeggiamo i ventinove anni dall'apertura dell'osteria: menù speciale». Gli occhi del finto burbero si illuminano. Sono trascorsi quasi cinquant'anni dal giorno in cui Andrea Gallo (per chi gli vuol bene Don), fu nominato cappellano della nave Garaventa, il riformatorio che tutti i ragazzi di Genova hanno sempre temuto.
«Loris, non darle retta, qui il menù è speciale ogni giorno. Ina sta per andare in pensione, l'ho conosciuta che era una ragazza, si è sposata, è diventata nonna... Lei, è speciale».
«Te lo dico dopo che ho mangiato» gli rispondo scherzando. «Fidati, fidati...»
Don ha una parola per tutti. L'osteria non ha un tavolo libero, qualche locale, soprattutto turisti. Per noi hanno preparato in una saletta un po' appartata, sapevano che la nostra cena sarebbe stata lunga e piena di parole.
A' Lanterna, a due passi dalla Torre della Lanterna, il faro portuale di Genova, il simbolo della città marinara, è un luogo molto affascinante.
Mi sembra di essere entrato in una taverna tratta da L'isola del tesoro, dove non si beve rum ma un bianco e un rosso che «vanno giù che è un piacere». Linguine misto mare, tagliolini al pesto, cozze al pomodoro, acciughe e salmone marinato, tagliata di spada affumicato con rucola e il fritto misto (da questo piatto si riconosce la qualità della cucina di mare: Ina è una grande cuoca), per finire panna cotta con caramello e coppetta fantasia (Ina non svelerebbe le due ricette neanche sotto tortura), poi una sana grappetta, ovviamente Barile, l'amico del Don da una vita.
In chiusura della serata un ultimo giro per la città, accompagnati dal fido Marco, dedicato ai più bisognosi.
Tutto accade di notte. Le ore più drammatiche sono quelle che portano all'alba: furti, omicidi, affari di ogni genere, droga e prostituzione.
Le ore del giorno aiutano gli ultimi, una grande città li nasconde, si mimetizzano tra le luci e le ombre. Durante il giorno, i disadattati, i poveracci, si notano di meno; durante la notte, invece, sono una presenza visibile, li vedi aggirarsi in cerca di un rifugio lungo il porto, sotto un cavalcavia, attorno alla stazione, dove, fino a qualche tempo fa, potevano andare di nascosto a rifugiarsi in un vagone parcheggiato lungo un binario morto.
Ubriachi, drogati, prostitute, dopo i tanti fatti di sangue, l'accesso alla stazione di notte è vietato. Gli ultimi non sanno più dove andare, rimangono soli con la loro disperazione. Da quando don Gallo è tornato a Genova non dorme più durante la notte, rimane a disposizione dei fratelli più sfortunati. Solo quando il sole comincia a dare luce alla sua città don si corica per qualche ora.
«La mia gente di notte non ha un posto dove andare, così io dormo di giorno e sto sveglio fino all'alba nel mio archivio, tante volte volesse passare di là». Racconta don Gallo. Classe 1928, ottantadue anni, portati alla grande.
Ancora viaggia su e giù per l'Italia per incontrare le persone, i fratelli. Quando arriva Andrea Gallo è sempre festa, la platea è piena, stipata. Con una regola: «Io dormo nel mio letto a San Domenico al Porto», e via chilometri su chilometri con Marco alla guida.
Don lo avevo incontrato altre volte, durante un dibattito o un suo intervento in qualche mia trasmissione. La sua parola mi ha sempre affascinato.
Le sue parole non sono mai buttate al vento, hanno sempre un senso, ti rimangono dentro, ti fanno pensare (è banale dirlo figuriamoci scriverlo, però non ho altro modo per raccontare quello che provo).
Quando è stato ospite a Che tempo che fa, mentre Fazio lo intervistava, io ero seduto dietro la scena, seguivo la ripresa attraverso un monitor di servizio, ascoltandolo pensavo: «Peccato che Don sia un prete, se fosse un politico, avremmo trovato il nostro leader».
È facile fare il rivoluzionario con il fucile in mano, anche se a volte è inevitabile, soprattutto quando si lotta contro il dittatore o l'usurpatore. Re Sole, Nicola II, Mussolini, Hitler, Stalin, Batista, Franco, Pinochet, Ceausescu o Al-Bashir, nomi che rappresentano disperazione e morte (l'Olocausto e le stragi nel Darfur sono solo due dei tanti esempi). Contro assassini come questi le parole sembrano inutili. Il criminale è convinto di prevalere su chi combatte per la verità e la giustizia sociale senza usare il fucile, eliminandolo, è accaduto a Gandhi e prima di lui a Cristo. Il loro pensiero, il loro esempio, la storia ci insegna, rimangono per sempre perché hanno la forza dell'acqua che goccia dopo goccia riesce a scavare la pietra.
Il mio cuore, sin da quando ero bambino, si è riempito di eroi, che hanno lottato per la giustizia.
I primi sono quelli che ho conosciuto attraverso la letteratura, da Davy Crockett a Robin Hood, da Ivanhoe a David Copperfield, poi sono arrivati i partigiani. Ricordo che la Rai, quando si avvicinava la data del 25 aprile, trasmetteva in prima serata alcuni film sulla Resistenza: da Paisà di Rosellini a Achtung!Banditi! di Lizzani, da Le quattro giornate di Napoli di Loy a La lunga notte del '43 di Vancini. Quando sento Bella ciao (oltre ad essere la canzone simbolo della Liberazione, era anche la sigla della serie televisiva), mi emoziono e come allora mi vengono in mente alcuni volti: quello di Lupo, Mario Musolesi il comandate della brigata Stella Rossa, morto a trent'anni nel settembre '44; di Irma Bandiera, ventinove anni, la staffetta Mimma, medaglia d'oro al valor militare, prima violentata poi trucidata dai nazifascisti, non rivelò un solo nome dei componenti del suo gap; di Sirio Corbari, nome di battaglia Silvio, che morì a ventun'anni.
Anch'io, come tanti ragazzi della mia generazione, sono rimasto affascinato da Che Guevara. Ho stampato nella mente quando arrivò la notizia della sua morte in Bolivia nel 1967, era come fosse morto un caro amico. Del Che ho letto tutto, da Guerra per bande in poi, ancora oggi se esce un libro o un film non li perdo. Conservo ancora la prima maglietta comprata a Londra nel 1970 con la sua immagine nera, quella storica, stampata in negativo su fondo verde.
Negli anni, affrontando la vita e facendo un lavoro meraviglioso che mi ha portato a viaggiare per il mondo e a incontrare tante persone, sono rimasto colpito soprattutto da quelle che sono quotidianamente a contatto con le miserie umane. Mi hanno fatto capire che era giusto allargare lo spazio nel mio cuore e a fianco dei miei eroi ho messo altri volti che tanto avevano in comune con gli eroi della mia adolescenza. Quante volte ne ho parlato con Enzo Biagi.
Quante volte abbiamo messo a confronto i nostri rivoluzionari, i nostri eroi. Un giorno, durante uno dei tanti viaggi che abbiamo fatto insieme, mi disse che per lui i grandi rivoluzionari del Novecento erano stati tre preti: don Milani, don Mazzolari e don Zeno Saltini, il fondatore di Nomadelfia che aveva dato una madre a quei bambini che non l'avevano.
Conoscevo bene le storie dei tre rivoluzionari di Biagi, in particolare di don Milani, avevo letto molto, ero stato a Barbiana dove aveva la scuola. Non avevo mai pensato a loro come eroi, mancava nella loro vita la parte epica.
Fino a quel momento il prete eroe, per me era rappresentato da don Minzoni che si oppose al fascismo di Mussolini e fu assassinato dalle brigate nere di Italo Balbo, o l'arcivescovo di San Salvador Romero, che fu ucciso mentre celebrava la messa, perché lottava contro la dittatura denunciando le violenze che la popolazione povera era costretta a subire. Quando parlavo a Biagi di Che Guevara lui mi rispondeva con la storia dei fratelli Rosselli, di Gobetti, uccisi dai fascisti e di don Fornasini che non volle abbandonare i suoi fedeli e fu trucidato insieme a loro vicino a Marzabotto, poi scuotendo la testa mi diceva: «Il nostro Paese non ha memoria, tu sei un esempio».
Ai tre preti rivoluzionari, nel tempo, ne ho aggiunti altri: Il vescovo di Rumbec, sud del Sudan, don Cesare Mazzolari che salva i bambini soldato e compra gli schiavi per dare a loro la libertà; padre Alex Zanotelli, missionario comboniano come il vescovo, che ho incontrato quando era ancora in Africa, nella bidonville Korogocho, vicina alla più grande discarica di Nairobi, dove la povertà è estrema e oltre il cinquanta per cento della popolazione è affetta dall'Aids. Ho visto quanto i bambini erano felici di stare con lui. Don Luigi Ciotti, il simbolo dell'antimafia e il laico Gino Strada per gli ospedali di Emergency, ma soprattutto per la sua missione contro tutte le guerre. Mentre scrivo sento di voler aggiungere a loro anche Don.
Di Andrea Gallo conosco quasi tutto. Mi sono reso conto, studiando la sua vita, che è quella di un grande rivoluzionario. Sicuramente lui non sarà d'accordo con questa affermazione, scommetto che mi direbbe: «Io ho seguito solo le impronte lasciate da altri».
Lui è un grande rivoluzionario, non solo per il bene che fa, ma per la forza della sua parola, l'esempio dato dal suo modo di vivere (Dio sa quanto abbiamo bisogno di esempi in questa società che sta distruggendo i valori, dove morale ed etica solo sono optional e quindi non obbligatori), per la capacità di rendere semplice tutto quello che è complicato.
«Mai finora ci siamo ritrovati con animo così turbato come oggi. Siamo di fronte, nel nostro bel Paese, a una caduta senza precedenti della democrazia e dell'etica pubblica. La mia coscienza di uomo e di prete che intende coniugare fede e impegno civile è in difficoltà a prendere la parola. Dov'è la fede? Nelle crociate moralistiche? Dov'è la politica? Nei palazzi? Dove sono i partiti? Sempre più lontani. È una vera eutanasia della democrazia, siamo tutti corresponsabili, anche le istituzioni religiose».
Così ha scritto in una lettera pubblicata dal Secolo XIX qualche tempo fa. Quello che mi ha più colpito in don Gallo è come lui ha messo in pratica gli insegnamenti del cristianesimo partendo dalla virtù che dovrebbe essere alla base della vita di un prete: la povertà, e che invece la Chiesa, quella conservatrice, quella dei tabù, gli ha sempre contestato, a volte trattandolo da eretico. Don Gallo non ha fatto altro che seguire l'esempio di Gesù, di san Francesco e di altri. Con la Chiesa il rapporto è stato difficile sin dall'inizio. «Chi vuol farsi obbedire deve prima riuscire a farsi amare», sono le parole di don Bosco che Andrea ha fatto sue.
Le prime incomprensioni con i superiori nascono nel riformatorio per minori, il suo primo incarico dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1959, a trentun'anni. Il metodo che usa con i ragazzi (non ha alla base l'espiazione della pena), non è gradito. Con don Gallo fiducia e libertà prendono il posto della repressione. Lavora sulla responsabilità, consentendo ai ragazzi di uscire per andare al cinema e vivere momenti di auto gestione. Dopo tre anni viene rimosso dall'incarico senza nessuna spiegazione.
Nel 1964 decide di lasciare la congregazione e di entrare nella diocesi genovese. «La congregazione salesiana si era istituzionalizzata e mi impediva di vivere pienamente la vocazione sacerdotale» racconterà successivamente. Le contestazioni che rivolge alla Chiesa sono le seguenti: la piramide gerarchica che la compone; la sua ricchezza; la mancanza del no totale alla guerra; la condanna nei confronti della laicità (per don Gallo, invece, la laicità rappresenta la difesa dei diritti dell'uomo).
Cercherò di fare una sintesi del pensiero del don (sicuramente molto riduttiva), attraverso le sue dichiarazioni, nella speranza che serva per capire meglio alcuni momenti dell'intervista.I preti e il matrimonio: «Don Gallo ritiene che vi sia una grande contraddizione con il Vangelo. Gesù sceglie direttamente colui che diventerà il primo papa, Pietro, sposato con figli. «Se i preti avessero la possibilità di sposarsi, si ridurrebbe il problema del prete che non rispetta il voto di castità, che vanno con prostitute, della pedofilia».L'omosessualità: «Un dono di Dio».L'uso del profilattico: La prima risposta di don Gallo è quella della morale cattolica: «Seguire l'astinenza in attesa del matrimonio». Nello stesso tempo ammette che la realtà è un'altra e non rendersene conto è ancora più grave. «Se i giovani fanno all'amore l'uso del profilattico è fondamentale».Il sacerdozio femminile: «Favorevole».Il divorzio: «Favorevole».L'eutanasia: «Favorevole, se regolamentata».Legalizzazione delle droghe leggere: «Don Gallo non è favorevole al principio, ma ammette che il problema è reale: “C'è la necessità di una rigida regolamentazione, il proibizionismo non serve”».
«Una società felice è una società dove c'è meno bontà ma più diritto. Il nostro governo e la nostra Chiesa ci offrono come carità ciò che dovrebbe essere un diritto. La nostra curia e ogni cristiano devono andare incontro a chi è diverso. Basta con questi principi non negoziabili, basta con i tabù: oggi abbiamo bisogno di una Chiesa che ascolti e che si nutra di creatività piuttosto che di paure».
Sono queste le parole che don ripete tutte le volte che ha la possibilità di parlare in pubblico. Don Gallo nel 1965 diventa viceparroco alla Chiesa del Carmine in un quartiere popolare di Genova. «Di portuali e operai, con abitazioni inagibili e un mercato rionale quasi indecente. Giravo nei vicoli, sostavo tra i banchi, passavo in edicola, discutevo con il salumiere che era convinto che mi piacesse il prosciutto ma comprassi la mortadella perché ero tirchio e volevo spendere meno» ricorda Don.
Erano gli anni della fine del concilio Vaticano II. Gli anni in cui la Chiesa decise di leggere i segni dei tempi. La guerra del Vietnam. Facciamo l'amore e non la guerra, era lo slogan del movimento pacifista americano. Da noi, dopo la rivolta francese, nasce la contestazione, il movimento studentesco che vuole la riforma della scuola, i giovani entrano sempre più nel sociale.
«Alla messa di mezzogiorno trattavo i temi di attualità, ero nettamente schierato al fianco degli ultimi, cominciai a tenere due leggii: da una parte il Vangelo, dall'altra il giornale» scrive don Gallo ricordando quei giorni che segnarono il suo futuro. La Chiesa poteva sopportare un prete così?
No. Nel 1970 dopo averlo fatto spiare dal parroco che registrava di nascosto le sue prediche, decise di trasferirlo. La goccia che fece traboccare il vaso e che aveva fatto scatenare l'indignazione dei benpensanti fu la predica all'indomani della scoperta di una fumeria di Hashish nel quartiere.
«Invece di inveire contro chi rollava qualche spinello ricordai quanto fossero diffuse e pericolose altre droghe, per esempio quella del linguaggio, talmente fuorviante che poteva tramutare: il bombardamento di popolazione inerme, in un'azione a difesa della libertà». La curia lo accusò di fare politica invece di predicare il Vangelo. I teologi della Chiesa lo accusarono di essere comunista: «I contenuti delle sue prediche non sono religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti».
Don Gallo era riuscito a trasformare la parrocchia del Carmine in un luogo di aggregazione, di confronto per giovani e adulti, nel tempo diventa un punto di riferimento per tutti: dai cattolici ai militanti della nuova sinistra. I parrocchiani fecero manifestazioni di solidarietà contro il suo trasferimento, scrissero una lettera al vescovo (che non ebbe mai risposta), accompagnata da 2370 firme.
Così don Gallo, nell'estate del 1970, saluta i suoi parrocchiani: «È vero, esiste un profondo dissenso fra me e la curia , ma un dissenso di amore e di profonda, convinta ricerca della verità. La cosa più importante è che si continui ad agire perché i poveri contino. Ci incontreremo ancora. Ci incontreremo sempre. In tutto il mondo, in tutte le chiese, le case, le osterie. Ovunque ci siano uomini che vogliono verità e giustizia».
Il giorno che ho incontrato Andrea Gallo ero convinto di trascorrere con lui alcune ore che poi sarebbero servite per realizzare questo libro, invece non è stato così, cioè non è stato solo quello. Mentre sto scrivendo, ripenso a quei momenti. Lo vedo dietro alla scrivania stracolma di lettere e di libri, nel suo studio che lui chiama archivio, forse con ragione. Ricordo la luce prima e la penombra poi che hanno accompagnato il trascorrere delle nostre ore, e non dimentico come, ogni tanto, guardava la foto, alla sua sinistra, quella di Giovanni XXIII, che lui chiama “il Papa”, il suo sguardo, sempre con un accenno di sorriso sulle labbra.
Quel giorno ho capito quanto possono far bene le sue parole, al tal punto che sembra di averle sempre sentite. Don Gallo è indimenticabile per come tratta il suo inseparabile toscano, rimane con lui anche quando mangia, è il suo vecchio caro amico, il compagno di sempre. Mi auguro di essere riuscito, nelle pagine che seguono, a trasmettere quello che ha rappresentato per me l'incontro e che le parole di don aiutino il lettore come hanno aiutato chi scrive. Per quell'incontro e per i tanti altri ringrazio Cinzia Monteverdi, che ha prodotto e diretto Angelicamente anarchico e l'editore Francesco Aliberti che mi hanno proposto di aprire questa collana di interviste con il don. |
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